E lasciateci sfogare

Io detesto gennaio e febbraio.

Sono due mesi che proprio non riesco a farmi piacere. E non è il freddo, non è l’umidità, non è nemmeno il cattivo tempo; d’altra parte, guardate dove mi sono trasferita…. Se il freddo, buio e brutto tempo fossero un problema, a quest’ora starei probabilmente studiando da qualche parte in America Latina. Invece vivo in Norvegia, e dopo tre anni e mezzo posso ancora dire che non desidero essere da nessun’altra parte al mondo. No, il mio problema non è con l’inverno, il mio problema è con gli inizi. C’è chi fa fatica a finire, chi tende a lasciare le cose a metà, io non riesco ad iniziare. Sono una ritardataria cronica, un’inguaribile procrastinatrice, una che lavora sempre a tre ore dalla scadenza e se può rimanda tutto, perchè proprio non riesco ad iniziare. La fatica non la faccio quasi mai nel lavoro stesso: una volta che la molla è scattata, che la penna ha cominciato a scrivere, che il meccanismo è in moto, poi il resto viene da sè, senza troppi problemi. Ma la fatica di autoconvincersi ad iniziare, l’iniziativa che ci vuole ad alzarsi e prendere la decisione di cominciare, quella è uno sforzo immane. Un ostacolo quasi insormontabile. E gennaio e febbraio sono l’inizio degli inizi: l’inizio del semestre accademico, dell’anno solare, del ciclo infinito del tempo che nel bene o nel male si conclude sempre col mese migliore di tutti, dicembre. E quindi non può che ricominciare con il peggiore. Affrontare le prime settimane di gennaio è come stare ai piedi di un monte a cui si deve dare la scalata: vedi il sentiero che s’incammina pian piano, ma guardando in su hai un’esatta idea di quanto tempo e fatica ci vorrà ad arrivare in cima, e ti viene male solo al pensiero. Febbraio, invece, è come quel momento in cui hai la lingua a terra a causa del fiatone e ti sembra di star camminando in salita da ore: guardi l’orologio e sono passati solo venti minuti, poi guardi il sentiero e non hai fatto nemmeno un centesimo della strada. Avete presente il lupo ne “La spada nella roccia”? Ecco.

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La cosa snervante, a volte, è che a frequentare norvegesi uno non si può neanche più lamentare. Per qualche strana ragione culturale che dopo sei anni ancora mi sfugge, i norvegesi sono virtualmente incapaci di lamentarsi come si deve: dopo averti sentito sfogare su qualcosa o su qualcuno, il norvegese medio conclude invariabilmente l’argomento con un “det skal nok gå bra”, “andrà sicuramente a finire bene”, o una variazione sul tema. E’ come se ci fosse una regola sociale non scritta secondo la quale non sta bene essere pessimisti, uno deve guardare al lato positivo delle cose, sempre e comunque. Più che analizzare il problema, è importante trovare la soluzione. Una sorta di positivismo moderno, quasi come se il postmodernismo, qui, non ci avesse mai messo piede. Che se uno non conoscesse la letteratura norvegese potrebbe anche crederci, ma no, è solo un tratto culturale. E una povera italiana, cresciuta per vent’anni in mezzo a problemi più irrisolvibili delle scale di Escher, che deve fare di fronte a tanto ottimismo? Sorride, annuisce, e ingoia il resto. Che uno a lamentarsi non risolverà magari niente, ma irrisolto per irrisolto almeno si è tolto lo sfizio.

“Enten så går det bra, eller så går det over” – “O finisce bene, o in ogni caso finisce” – Proverbio norvegese