Sogno di una notte di mezza estate

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A volte mi viene chiesto come riesco a sopportare la mancanza di luce, qui in Norvegia. Sembrano dimenticare che è solo una faccia della medaglia: ad ogni inverno corrisponde un’estate. Ad ogni periodo di buio ne corrisponde uno di luce.
Ce ne si ricorda a fine giugno, quando l’aria è finalmente dolce è l’estate ha fatto il suo arrivo, di un verde intenso da togliere il fiato. Gli esami sono finiti, le vacanze stanno per iniziare, e perfino lavorare è un po’ più piacevole. A nord, dove la notte artica ruba il sole per mesi, questo periodo corrisponde al sole di mezzanotte, il fenomeno per osservare il quale milioni di turisti ogni anno viaggiano fino ai confini dell’Artide. Ma fra le buie notti estive del sud Europa e il sole perenne, c’è un gioiello nascosto nel mezzo, il quieto stupore delle notti norvegesi. Qui il sole tramonta ancora, per una manciata d’ore, e lascia una notte luminosa, una non-notte, un crepuscolo che dura fino all’alba. E’ un mondo magico, un mondo di fate, dove la mancanza di sonno non è stanchezza ma un dono. E quando il sonno viene, ci si addormenta senza ombre, e senza paure.
Se è vero che io amo le lunghe notti invernali, la coperta avvolgente del buio e della neve e il profondo riposo della terra, amo ugualmente le corte notti estive, le fresche ore di luce perlata e la veglia perenne della natura. Ed entrambe ispirano poesie, ed entrambe ti conquistano il cuore.

Juninatt

Og det er juninatta
høgt over skog og fjell.
Og det er grøne lunder
der mørket itte fell.
Og itte får jeg sova,
og itte vil je hell.

Og det er midnatt-stønna,
som har så luftig lin
og stryk i lyse enger
og dynker dem med vin.
Og alle blømer anger,
og alle auger skin.

Det står ei bjørk i skogen,
og lyse krona svell
og sitrer om en lengsel
som lyt få vera tel.
Nei, itte får je sova
og itte vil je hell.

Notte di giugno

Ed è la notte di giugno
alta su selve e monti.
E ci sono boschi verdi
dove non cala mai il buio.
Ed io non riesco a dormire
e nemmeno lo vorrei.

Ed è il sospiro di mezzanotte
che ha un lino così leggero
e carezza nei prati luminosi
e li spruzza di vino.
E tutti i fiori profumano
e tutti gli occhi brillano.

C’è una betulla nella foresta,
e la sua chioma chiara ondeggia
e freme di una nostalgia
che deve essere ascoltata.
No, non riesco a dormire
e nemmeno lo vorrei.

Einar Skjæraasen

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E lasciateci sfogare

Io detesto gennaio e febbraio.

Sono due mesi che proprio non riesco a farmi piacere. E non è il freddo, non è l’umidità, non è nemmeno il cattivo tempo; d’altra parte, guardate dove mi sono trasferita…. Se il freddo, buio e brutto tempo fossero un problema, a quest’ora starei probabilmente studiando da qualche parte in America Latina. Invece vivo in Norvegia, e dopo tre anni e mezzo posso ancora dire che non desidero essere da nessun’altra parte al mondo. No, il mio problema non è con l’inverno, il mio problema è con gli inizi. C’è chi fa fatica a finire, chi tende a lasciare le cose a metà, io non riesco ad iniziare. Sono una ritardataria cronica, un’inguaribile procrastinatrice, una che lavora sempre a tre ore dalla scadenza e se può rimanda tutto, perchè proprio non riesco ad iniziare. La fatica non la faccio quasi mai nel lavoro stesso: una volta che la molla è scattata, che la penna ha cominciato a scrivere, che il meccanismo è in moto, poi il resto viene da sè, senza troppi problemi. Ma la fatica di autoconvincersi ad iniziare, l’iniziativa che ci vuole ad alzarsi e prendere la decisione di cominciare, quella è uno sforzo immane. Un ostacolo quasi insormontabile. E gennaio e febbraio sono l’inizio degli inizi: l’inizio del semestre accademico, dell’anno solare, del ciclo infinito del tempo che nel bene o nel male si conclude sempre col mese migliore di tutti, dicembre. E quindi non può che ricominciare con il peggiore. Affrontare le prime settimane di gennaio è come stare ai piedi di un monte a cui si deve dare la scalata: vedi il sentiero che s’incammina pian piano, ma guardando in su hai un’esatta idea di quanto tempo e fatica ci vorrà ad arrivare in cima, e ti viene male solo al pensiero. Febbraio, invece, è come quel momento in cui hai la lingua a terra a causa del fiatone e ti sembra di star camminando in salita da ore: guardi l’orologio e sono passati solo venti minuti, poi guardi il sentiero e non hai fatto nemmeno un centesimo della strada. Avete presente il lupo ne “La spada nella roccia”? Ecco.

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La cosa snervante, a volte, è che a frequentare norvegesi uno non si può neanche più lamentare. Per qualche strana ragione culturale che dopo sei anni ancora mi sfugge, i norvegesi sono virtualmente incapaci di lamentarsi come si deve: dopo averti sentito sfogare su qualcosa o su qualcuno, il norvegese medio conclude invariabilmente l’argomento con un “det skal nok gå bra”, “andrà sicuramente a finire bene”, o una variazione sul tema. E’ come se ci fosse una regola sociale non scritta secondo la quale non sta bene essere pessimisti, uno deve guardare al lato positivo delle cose, sempre e comunque. Più che analizzare il problema, è importante trovare la soluzione. Una sorta di positivismo moderno, quasi come se il postmodernismo, qui, non ci avesse mai messo piede. Che se uno non conoscesse la letteratura norvegese potrebbe anche crederci, ma no, è solo un tratto culturale. E una povera italiana, cresciuta per vent’anni in mezzo a problemi più irrisolvibili delle scale di Escher, che deve fare di fronte a tanto ottimismo? Sorride, annuisce, e ingoia il resto. Che uno a lamentarsi non risolverà magari niente, ma irrisolto per irrisolto almeno si è tolto lo sfizio.

“Enten så går det bra, eller så går det over” – “O finisce bene, o in ogni caso finisce” – Proverbio norvegese

The wild hunt – quando Natale e Halloween sono la stessa tradizione

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Molto tempo fa, prima che il cristianesimo e il Natale arrivassero in queste terre, la vita delle popolazioni qui al nord era scandita dal lavoro nei campi e da feste in onore di dei ora dimenticati. Gli anni erano divisi in stagioni, inverno e estate, i mesi seguivano i cicli lunari. Quando l’inverno era arrivato, i raccolti finiti, gli animali ingrassati, le dispense piene e la birra fermentata, era il momento di ringraziare gli dei dell’anno concluso, e pregarli di portare prosperità e fortuna nell’anno a venire. Una grande festa si teneva nel mese di Ýlir (circa 14 novembre – 13 dicembre nel nostro calendario) che ancora oggi porta lo stesso nome: Jólefeiring, o Jul. Questa festa durava molti giorni: nel periodo più buio dell’anno si brindava alla vita, ed alla fertilità.
Ma nelle stesse notti, protetti dall’oscurità della lunga notte invernale, i morti tornavano nei loro luoghi natali. Alcuni erano pacifici: chi era morto per cause naturali tornava presso i propri discendenti, ed era costume lasciare una luce accesa, il cibo sul tavolo e un letto vuoto per gli antenati che tornavano a casa. Ma coloro che erano deceduti di morte violenta vagavano tutti insieme nella notte, in groppa a cavalli neri e gelati, una spettrale compagnia chiamata Oskorei, “la pericolosa corte”. Qualcuno dice che fosse Odino stesso a guidarli, e che venissero anche chiamati “la caccia selvaggia” o “la caccia di Odino”. Cavalcavano nei boschi e per le strade, razziavano le case mangiando il cibo preparato per Jul e prosciugando la birra, e tutto dove si fermavano avvenivano risse e omicidi. Chi non aveva ancora finito di preparare per le festività veniva trascinato via, a chi dormiva veniva strappata l’anima, e chi vagava di notte da solo veniva rapito e costretto a seguire per sempre il seguito dell’oltretomba.
L’avvento del cristianesimo ha spostato le celebrazioni in avanti di un mese, anche se non è riuscito a cambiar loro nome: e l’antica festa di Jul è diventata oggi il Natale cristiano. Le tradizioni contadine sono abbandonate, gli antichi dei dimenticati. Ma chi dice che fuori dalle nostre case, nel buio delle notti di novembre, non cavalchi ancora un corteo di defunti e creature dell’oltretomba, pronto a rapire gli incauti che si avventurano da soli nell’oscurità?

Lydt gjennom Luften i Natten farer
et Tog paa skummende sorte Heste.
I Stormgang drage de vilde Skarer,
de have kun Skyer til Fodefæste.
Det gaaer over Dal, over Vang og Hei,
gjennem Mulm og Veir; de endse det ei.
Vandreren kaster sig ræd paa Veien.
Hør hvilket Gny – det er Asgaardsreien!

Asgaardsreien i Fylking rider
ved Høst og Vinter i barske Nætter,
men helst den færdes ved Juletider;
da holder den Fest hos Trolde og Jetter,
da stryger den lavt over Eng og Sti
og farer den larmende Bygd forbi –
da vogt dig Bonde, hold Skik og Orden;
thi Asgaardsreien er snart ved Gaarden!

Rumoroso viaggia attraverso l’aria nella notte
un corteo su spaventosi cavalli neri.
Avanza nella tempesta la selvaggia compagnia,
ha solamente nuvole sotto ai piedi.
Va per valli, sopra campi e brughiere,
attraverso l’oscurità e la tormenta; nulla la ferma.
Il viaggiatore si lancia impaurito sulla strada.
Senti che tuono – è l’Oskorei!

L’Oskorei in formazione cavalca,
in autunno e in inverno nelle rigide notti,
ma più di tutto viaggia nel periodo di Jul;
è allora che fa festa presso i troll e i giganti,
è allora che corre veloce su prati e sentieri
e passa oltre la città rumorosa –
allora fai attenzione contadino, mantieni l’ordine e la tradizione;
perchè l’Oskorei è quasi alle tue porte!

Living with the elephant

Ognuno ha il suo modo di reagire all’annuncio della fine. Qualcuno si concede tutto ciò che non si era mai concesso, rompe ogni regola, ogni tabù, ogni proibizione. Qualcuno si finisce con le proprie mani, per avere almeno l’illusione di aver potuto scegliere. Qualcuno s’inventa disperatamente, inutilmente mille e uno modi per sfuggire all’inevitabile. Qualcuno prega. Qualcuno urla. Qualcuno impazzisce. Nel momento in cui sappiamo l’ora e il giorno in cui ci aspetta la fine, ognuno di noi ha il proprio modo personale di ribellarsi ad essa, o di accettarla. Ma quando la fine è come una spada di Damocle sulla testa di ognuno, personale ma collettiva, pressante ma indefinita; quando la fine potrebbe arrivare ogni giorno, ma nessuno sa quale, allora non c’è che una sola reazione, ed è ignorarla. Perchè nessuno riuscirebbe nemmeno a respirare, sapendo che quel respiro potrebbe essere l’ultimo. Nessuno potrebbe mai iniziare nulla, senza sapere se riuscirà a finire. Ognuno per potersi muovere, per poter continuare a vivere ha bisogno di un futuro certo, anche se questa certezza fosse la data della propria fine. Una fine incombente ma indeterminata viene ignorata, e la tenacia con cui lo si fa è la tenacia stessa che ci tiene ancorati alla vita. Sappiamo che davanti a noi vi è il nulla, ma efficacemente lo dimentichiamo, perchè ricordarlo equivarrebbe a lasciare che quel nulla tolga significato anche alla più piccola delle nostre azioni e ci trasformi in bambole inutili ed inerti, che aspettano e sperano che la fine arrivi.

No, non sono depressa e no, nessuno mi ha diagnosticato mali incurabili, per fortuna. Ma stamattina sedevo in veranda leggendo il giornale, e da ogni pagina piattaforme petrolifere nei mari del nord, api morenti, guerre appena iniziate e guerre ancora da iniziare si alzavano e si accumulavano come nubi nere e pesanti, come una tempesta imminente, ancora all’orizzonte ma sufficientemente vicina e nera da non lasciare scampo.
Poi però mio padre è passato a chiedere se volevamo dargli una mano nel campo e improvvisamente le nuvole erano sparite, il sole splendeva sulla Norvegia e io mi sono alzata felice per andare a piantare patate una domenica di fine maggio. Il giornale è rimasto abbandonato sul tavolo.

Little big city and the tram

Ci sono delle cose che mi mancheranno di Oslo. Cose a cui non avrei mai pensato. Come le sue strade larghe, i suoi giardini ordinati, i suoi colori tenui. Mi mancheranno il suo stile e la sua comodità, e alcuni dei suoi angoli più o meno conosciuti, come i palazzi dell’università in centro e i boschi di Bygdøya.
Una cosa che mi mancherà più del resto, credo, saranno i tram. Un mezzo di trasporto pulito e silenzioso, che scivola nella grande città, la unisce e la caratterizza. I tram hanno visto crescere questa città, da quando ancora portava il nome Christiania, e l’hanno accompagnata negli ultimi cento anni, fedeli.
Hanno accompagnato anche me in questi dieci mesi, mi hanno portato ovunque in fretta e senza fatica. Mi hanno accompagnato al lavoro e nelle mie esplorazioni, nonostante la neve, la pioggia o il ghiaccio. I loro vagoni sono caldi e protettivi d’inverno ma freschi e rilassanti d’estate, e dai loro finestrini si può godere la vista di una Oslo che nessun altro conosce, perché scivolano su tracce segnate solo per loro, solo a loro accessibili.
E la popolazione dei tram! Cambia con il cambiare delle zone della città, il tram si riempie e si svuota a seconda delle ore della giornata e del giorno della settimana. Come la popolazione dei treni ma in una versione cittadina, più moderata e discreta, ci sono personaggi strani e sorprendenti, conversazioni buffe e opportunità di conoscenze. Condividere cinque, dieci minuti della propria vita con degli estranei è un tipo di vicinanza innocuo e non impegnativo che tutti sono disposti a concedersi.
Perché nel ventre di un tram di Oslo ci si sente davvero tutti abitanti e cittadini di questa piccola grande capitale.

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Tutti insieme appassionatamente

Lo scorso finesettimana il nostro coro è partito per un seminario fuori città.
No, non è stata una di quelle cose noiose in cui passi la maggior parte della tua giornata chiuso in un auditorium ad ascoltare qualcuno che parla mentre fuori c’è il sole, e poi la sera ti ubriachi al bar dell’albergo con gli altri seminaristi.
Ok, sì, in effetti è andata più o meno così, tranne la parte in cui ascolti uno che parla, ma non è questo il punto.
Lo scopo del ritiro, oltre all’onnipresente obiettivo di rinsaldare i rapporti di gruppo (la metà delle cose che un norvegese fa nella sua vita hanno lo scopo di rinsaldare i rapporti di gruppo), era quello di lavorare su alcuni pezzi particolarmente ostici in vista del grande concerto di giugno, e ovviamente divertirsi. Almeno dal punto di vista del canto, l’idea ha funzionato perfettamente: abbiamo cantato sia da sobri che da ubriachi.
Il posto dove ci trovavamo era incantevole, e il tempo atmosferico ha superato se stesso, regalandoci due giorni senza una nuvola in cielo. Non che ne abbiamo potuto approfittare molto, da dentro l’auditorium, ma l’importante è il pensiero. L’albergo, di nome Thorbjørnrud, è situato sulle rive del lago Randsfjorden, un lago morenico. La città più vicina è Jevnaker, e a poche centinaia di metri sorge la vetreria di Hadeland, meta di attrazione turistica che abbiamo prontamente visitato durante la pausa pranzo. Avete mai notato che chi ha poco di cui vantarsi lo sa valorizzare molto meglio? Hadeland è un buon esempio… anche se bisogna ammettere che il luogo in cui sorge è un gioiello dal punto di vista naturalistico.
Durante le pause pranzo ho scattato alcune foto. Ci sono state anche innumerevoli pause caffè-più-mela (il caffè, come sempre negli alberghi e uffici in Norvegia, era gratis) e non credo di aver mai bevuto così tanto caffè in vita mia. La festa del sabato sera, oltre ad un’ottima cena, ha incluso anche cose come bere, fare un video cantando “Girls just wanna have fun” per il compleanno di una corista assente, bere, cantare “Kumbaya” accompagnati da una chitarra, bere, fare un’asta con le cose più orribili che avevamo in casa allo scopo di tirare su fondi per la cassa comune, bere, cantare altre canzoni e naturalmente bere. Per fortuna i letti erano comodissimi, ma le prime ore della domenica mattina non sono state comunque troppo brillanti…

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Il risveglio

La luce è quasi accecante, assoluta e bianca.
Il sole torna a scaldare, è un’impercettibile carezza sulla pelle.
La neve scioglie, l’acqua corre in rivoli giù per le strade, cantando allegramente accompagnata dagli uccellini.
Il cielo è di un azzurro acquarello, l’aria mite e giovane.
Dal porto giunge chiaro e profondo il fischio di una sirena, forse una nave da crociera in arrivo.
Una mattina di fine marzo, una città che luccica, lucida e nuova, pronta per la primavera.
Buona Pasqua.

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L’amore secondo Lucy

Oggi, 14 febbraio, è l’anniversario di matrimonio dei miei datori di lavoro. A tavola si è venuto quindi a parlare di fidanzati, per quanto si possa dire di trattare un argomento con un bambino di tre anni e una di cinque.
Lucy, estasiata all’idea del matrimonio dei suoi genitori, ha subito chiesto con la voce petulante da bambina piccola che usa di tanto in tanto “Voi siete seduti vicini, siete fidanzati?”. Risate generali, sguardo divertito dei due “fidanzati” in questione. “Sì…” è stata la risposta. Sigurd ha poi aggiunto qualcosa a proposito delle sedie che sono fidanzate.
Intanto Lucy continuava il filo dei suoi pensieri, imperturbata. “Io e Signi (la sua migliore amica all’asilo) siamo fidanzate” ha affermato.
Poi, visto che nessuno le aveva prestato attenzione, ha chiesto “Mamma, io e Signi ci possiamo sposare?”. “Sì, se avete voglia” ha replicato sua madre distratta. “Allora quando saremo grandi ci sposeremo” ha dichiarato Lucy, tornando soddisfatta alla sua cena.
“E anche le sedie” ha aggiunto Sigurd. “E anche le sedie, sì” ha confermato suo padre sorridendo.
Buon San Valentino

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Tranquillo finesettimana a casa di mamma e papà.
Fra la finale del Melodi Grand Prix in tv e la festa della mamma, abbiamo trovato il tempo per fare un giretto di un miglio e mezzo sugli sci. Niente di che, ma sufficiente a rilassarmi e permettermi di tornare ad Oslo con un pochino più di buon umore.
Ma ora ditemi signori: non è questo il posto più bello della terra?

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Di connazionali e strane sorprese

La prima volta è un caso.
Sto tornando dalle vacanze in Italia, sul volo Francoforte – Oslo noto una ragazza italiana che rincontro poi sul treno per il centro. Si chiama Laura, è qui in Norvegia per un dottorato di tre anni, è arrivata solo in novembre. Ci scambiamo i numeri di telefono, non si sa mai.
La seconda volta è inevitabile.
All’ambasciata italiana per iscrivermi all’AIRE, incrocio per caso un ragazzo che è venuto ad informarsi sul voto dall’estero. Il suo nome è Giovanni, studente erasmus, sta facendo un tirocinio per la sua laurea magistrale. Chiacchieriamo fino all’ingresso della metro, poi ognuno va per la sua strada.
La terza volta è una coincidenza.
Salgo sul tram di corsa una domenica sera, mi accascio sul primo sedile libero per riprendere fiato. Due ragazze accanto a me discutono ad alta voce in italiano. La curiosità della situazione mi fa ridere, così faccio conoscenza con Silvia e Silvia, che lavorano qui come maestre d’asilo da un anno circa. Stanno imparando la lingua, entrambe hanno studiato in Italia, ma per il momento questo è il lavoro che possono fare. Scendono prima di me, ci salutiamo.
La quarta volta… e la quarta volta allora?
La quarta volta sto tornando da una cena a casa di amici, una coppia di cui lei è una neozelandese trapiantata in Europa e sua moglie un’italiana emigrata in America emigrata in Norvegia. La compagnia della serata era piuttosto italiana, oltre a me c’erano ospiti uno studente erasmus a Bergen e due amici in visita. Esco dalla metro e salgo sul tram, mi siedo a caso vicino a due ragazze che dopo tre secondi cominciano a parlarsi in italiano con un inconfondibile accento sardo. Scendono dopo poche fermate, e in ogni caso non ho nessuna ragione per attaccare discorso. Ma una domanda sorge spontanea: ma ci sono solo italiani in questa benedettissima città norvegese??